Quando ero ragazza, cioè tanti decenni fa, usava molto avere un “amico di penna”, o di matita come diceva Charlie Brown, qualcuno che magari neppure conoscevi e al quale scrivevi i tuoi pensieri, ciò che ti capitava.
A me è ricapitato con la malattia, alla tenera età di 63 anni. Certo, non si tratta più di un amico di penna, bensì lo definirei un “amico di whats’up”, meglio ancora, un’amica.
Si tratta di una mia collega volontaria, come me impegnata all’Istituto dei Tumori in pediatria, che da quando mi sono ammalata ogni mattina mi dà il buon giorno con un’immagine, o una foto, o un pensiero, via whats’up. Anche nei periodi in cui per lavoro si trova dall’altra parte del mondo, non dimentica di salutarmi. E quando le capita di viaggiare in posti talmente sperduti che non esiste connessione wi-fi, mi informa prima e mi comunica quanto tempo durerà il black-out tra di noi.
Pensare che quando ero volontaria, cioè prima della malattia, ci vedevamo solo alle riunioni mensili con la psicologa, perché in Istituto avevamo turni in giorni diversi. E non eravamo neppure amiche o legate da particolare affetto.
Eppure, da un giorno all’altro con la mia malattia, il nostro appuntamento è divenuto quotidiano e un forte legame si è creato tra di noi.
Nei giorni in cui non mi sentivo molto bene, o per niente, facevo fatica a risponderle, forse qualche volta, raramente, non l’avrò fatto, ma l’educazione mi imponeva almeno di mandarle una faccina, un sorriso, un ciao. Mi è servito da sprone nei momenti in cui non avevo voglia di fare nulla, solo di rimanere sdraiata a letto. Grazie Mary per la tua presenza virtuale!
Quindi viva la tecnologia, viva i social media che ci tengono legati alle persone lontane, ancor più in questo periodo di isolamento da coronavirus.